Il biofuel, condanna di una finta soluzione

Olio di palma

Quando alcuni decenni fa arrivò sul mercato, si gridò al miracolo: molti pensarono di aver definitivamente risolto il problema dei carburanti.

In un mondo dominato dal petrolio, l’arrivo dei biocombustibili venne visto come un passo avanti enorme verso la sostenibilità ambientale.

Purtroppo la realtà è molto più complessa, dopo i primi festeggiamenti, l’entusiasmo cessò per lasciare spazio al pragmatismo.

I biocombustibili non sono altro che combustibili ricavati dalle biomasse come grano, mais, eccetera. Visto così sembrerebbe un prodotto nettamente migliore rispetto ai combustibili fossili ricavati dalle estrazioni petrolifere, tuttavia non si fece i conti con il problema degli spazi coltivati.

Sostituire i combustibili fossili con le biomasse non è sostenibile in quanto sono necessarie ampie zone da coltivare, aree che andrebbero a sostituire le aree destinate all’agricoltura per il consumo umano e alle foreste ancora intatte.

Un altro problema è il non sempre vantaggioso rapporto tra energia spesa per la produzione e l’energia ricavata. La produzione inoltre consuma molte risorse idriche.

Molti esperti indicano la produzione di biocarburanti come una delle cause maggiori di mancanza di cibo nel mondo. Tuttavia, il problema principale rimane quello della deforestazione.

Distruggendo gli habitat naturali non solo perdiamo specie animali uniche al mondo, ma incrementiamo le emissioni e quindi il cambiamento climatico indotto dall’uomo.

Le foreste svolgono un ruolo cruciale nel mantenere l’equilibrio, sottraggono tonnellate di anidride carbonica e rilasciano ossigeno, senza foreste la vita stessa non sarebbe possibile.

Esemplare è il caso dell’olio di palma, una delle colture più produttive al mondo che tuttavia causa la deforestazione in aree critiche del pianeta come il Borneo caratterizzate da altissima biodiversità che sparisce sotto il peso delle coltivazioni.

Forse il simbolo di questo sviluppo incontrollato è la riduzione massiva delle popolazioni selvatiche di orango tango, l’animale simbolo delle foreste indonesiane.

E’ proprio l’Indonesia infatti a pagare il prezzo ambientale più alto: ogni anno milioni di ettari di foreste vengono convertite in coltivazioni di palma da olio.

I profitti miliardari non vengono ovviamente ripartiti con le popolazioni locali, ma spariscono presto in qualche società off shore posseduta da qualche ricco straniero che non si pone scrupoli.

Uno dei pericoli maggiori legati all’olio di palma è legato alla sua ecologia: finito il ciclo produttivo di 25 anni, la palma lascia dietro di se un terreno povero che non permette ulteriori coltivazioni.

Forse non tutti sanno che la palma da olio non è nativa dell’Asia, ma viene dall’Africa.

I primi passi politici sono stati compiuti dall’europa che dal 2020 vieta l’utilizzo dell’olio di palma nella produzione di biocombustibili.

Come sempre accade, la soluzione può arrivare dalla tecnologia e dalla ricerca. Un team di ricercatori inglesi ha infatti riprodotto in laboratorio una sostanza simile all’olio di palma ricavata dalle alghe marine.

Questa scoperta può e deve generare un nuovo mercato sostenibile che prenda il posto sia del petrolio sia delle coltivazioni agricole.

Tuttavia, il vero freno non viene dalla scienza, ma dagli interessi: è certamente più facile ed economico tagliare la foresta e rimpiazzarla con le palme piuttosto che finanziare la ricerca e creare nuovi mercati.

Molte multinazionali preferiscono l’uovo oggi rispetto alla gallina domani, ma il mondo non può aspettare che l’avidità umana si traduca in lungimiranza. Il tempo a nostra disposizione si riduce sempre di più.

Alessandro di Keep the Planet.